Editoriale: Una “cacata media”​ è un’unità di misura decisamente troppo ampia per il 99% della comunicazione

Non so se hai visto “Il grande freddo”. È un bellissimo film del 1983. 

Io nell’83 ero un bimbo, l’ho visto dopo, ma è uno di quei film che non invecchiano perché parla di emozioni e relazioni, che tutto sommato restano sempre uguali nei secoli.

Due cose mi ricordo di quel film: la colonna sonora pazzesca (ai livelli di Forrest Gump e Kill Bill vol.1), e un dialogo tra Jeff Goldblum e Kevin Kline che è più o meno questo:

Dove lavoro, abbiamo una sola norma editoriale: non scrivere niente di più lungo che l’uomo medio non legga durante una cacata media… Sono stufo che il mio lavoro venga letto nei cessi

La gente leggeva Dostoevskij nel cesso.

Non in una cacata sola, però.

Me ne sono ricordato ieri, leggendo un’intervista su Rolling Stone Italia a un, per quanto mi riguarda, monumento dell’adv italiano, Giampietro Vigorelli.

Un lungo requiem della pubblicità, in cui racconta gli anni d’oro, quelli in cui c’erano grandi budget, si cercavano grandi idee mentre oggi è tutto molto banale e poco coraggioso.

E allora pensavo che “una cacata media è un’unità di misura decisamente troppo ampia per il 99% della comunicazione” (pubblicitaria e non) che vediamo oggi.

E questo secondo me è uno dei problemi. 

La dico in un altro modo: quanto tempo è sensato dedicare a un contenuto che, se proprio va benissimo, dura ventiquattr’ore?

E questo da molti punti di vista: da parte di chi li realizza, perché se al personaggio di Goldblum rode di dover scrivere cose brevi e poco impegnative, ti puoi immaginare quanta emozione si prova a scrivere la caption di un post per Instagram. Ma anche dal lato brand: quanto sei motivato a investire su una comunicazione così effimera come è quella dei social?

Attenzione: non sto dicendo che non è importante, o che non serve. Sto dicendo che se è un “bene di consumo”, per di più di consumo super rapido, forse dobbiamo iniziare tutti a farci delle domande. E a cercare le risposte da un’altra parte.

Per me è abbastanza scontato dove cercarle: non dico che tra cinquant’anni citeranno i dialoghi di un podcast, come faccio io oggi qui con Il grande freddo; ma dico che è uno strumento che, se fatto bene oggi, tra dieci anni sarà pronto per essere scoperto da nuovi ascoltatori; che ha una vita lunga, così lunga che dobbiamo cercare un’unità di misura nuova, che non passa dall’intestino per capirci.

E allora tu, “brand”, che stai costruendo un’identità, che hai una visione di dove vuoi essere tra dieci anni, che non ragioni sulla vendita mordi e fuggi, sai che puoi piantare un seme che avrà stagioni diverse; rigermoglierà, ricrescerà, darà frutti più volte nel corso del tempo, parlando a persone diverse, in momenti diversi.

E, piccolo inciso, ecco perché ha poco senso affidare uno strumento così longevo a personaggi che sono destinati a non sopravvivergli.

Ci leggiamo mercoledì, nel frattempo, la colonna sonora del Grande Freddo la trovi qui.

Have a good listen!